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Sono una curandera?

Per anni ho cercato la mia identità perduta, perché “persa” è come mi sentivo. Ho girato per libri e strade sconosciute, lasciandomi guidare dall’istinto di cui avevo dimenticato perfino la voce.

Avendo perso tutto, ho invocato Madre Natura, senza arrendermi mai, abbattendo tutti i muri che mi si presentavano, seguendo ogni via che sembrava darmi speranza e tracciandone di nuove.

Ho bussato a mille porte, mi sono aggrappata a ogni spiraglio di luce, ho dato fiducia anche dove non avrei dovuto fino a rendermi conto che ero finita in un labirinto di cui non conoscevo ne uscita ne regole.

Ho iniziato ad analizzare cosa mi era rimasta, ma a nulla sono serviti tutti i miei sforzi. Ogni briciola conquistata mi costava molta più energia di quanta ne dava.

«Sei forte!» mi dicevano «Non arrenderti!». Ma per quanto provassi non c’era nulla che funzionasse davvero e, per quanto cercassi spiegazioni e mi struggessi per gli insuccessi, non trovavo soluzione.

«Sono i periodi della vita, vedrai che poi andrà meglio» mi sentivo ripetere, ma come poteva capire la gente che io passavo “i periodi al contrario”? Che per un mese che vedevo un po’ di luce, ne seguivano sei di buio nero?

Non mi sono arresa. Mi sono riempita la testa di frasi fatte. Come sono belli i proverbi! Ho sentito per loro sempre una grande attrazione: “Sopra le nuvole splende sempre il sole”, “Non può piovere per sempre”, e il mio preferito “Il bisogno aguzza l’ingegno”. Ne ho fatto perfino un blog con quel nome (Andatelo a cercare se vi va). Da loro prendevo forza, ma qualcosa ancora non riuscivo ad afferrare… si, mi sfuggiva tra le mani come acqua di fonte.

Così ho urlato, ho sbattuto, mi sono arrampicata con le unghie e con i denti sui pendii più ripidi, finché, un giorno, ho fatto l’unica cosa che non avevo ancora provato: mi sono arresa.

C’è poco da fraintendere in questa affermazione. La resa di cui parlo non è certo il suicidio, no, quello è ben altro che arrendersi. La resa di cui parlo è stato, per me, un dialogo alla riscoperta della vera “me stessa”. Di quella me senza maschere, senza impalcature di genere, senza bucce e spine.

Semplicemente mi sono arresa alla vita stessa.

Ricordo molto bene quel giorno e quel momento. Stavo in una fermata del bus con altra gente dopo l’ennesima sconfitta.

Era la fine della primavera e come sempre mi distraevo a guardare i piccoli miracoli della natura. D’istinto alzai gli occhi al cielo, poi con tutto il cuore, con tutto l’amore e, me ne rendo conto solo ora, con tutto l’intento di cui disponevo allora, ho parlato ad alta voce senza timore che altri mi sentissero: «Mi sei rimasta solo tu, per favore guidami perché davvero non so più dove sbattere la testa e per favore, mandami un segno».

Neanche pochi giorni dopo iniziai a trovare cuori a terra e piccoli lavoretti, uno di seguito all’altro. Per anni ho trovato solo gente che cercava rogna. Per la prima volta in vita mia venivo contattata. Qualche giorno di baby-sitter, qualche ora di pulizie o di stiro, accudire animali, volantinaggio.

Nel giro di un anno ho iniziato a lavorare con contratto come Tata in una famiglia. Ero al settimo cielo, quasi non ci credevo, ma non ho voluto pensarci, non mi importava più dei “perché”, non mi serviva più dare un nome all’identità, quello che contava era la fiducia che stava nascendo in quello che ora chiamo “intento”.

Non era certo la fine della storia. È stato solo l’inizio di una delle mille e mille volte in cui sono morta e rinata a me stessa. Col tempo ho capito di aver fatto un giro immenso per tornare al principio, rafforzata e capace di affrontare l’obiettivo che mi sono prefissata fin dalla nascita.

Alla fine ho trovato una strada che mi calza come un vestito su misura, scoprendo che la fine non esiste mai davvero, che tradire se stessi per sopravvivere non è vivere, bisogna morire per rinascere e tante altre cose per cui mi servirebbero pagine e pagine.

Ora, come mai in vita mia, mi sento come una bimba piccola che scopre e riscopre il mondo, che si guarda le manine e pensa “davvero sono io a farle muovere?”, che assaggia ogni cosa con curiosità e fiducia nella vita e i quell’adulto che non fu in grado di sostenermi da piccola, ma che, questa volta, sono io stessa.

Qualcuno inizia a chiamarmi Curandera perché amo le erbe e altre cose che sto imparando e, forse, a volte penso che abbiano ragione. Sto imparando a curare e a guarire, per prima cosa me stessa e il mio spirito, poi la mia famiglia e i miei amici. Chi lo desidera sa dove trovarmi e, se mi cerca, io sarò disponibile, ma non a disposizione. Non ho ricette miracolose da dare. Non ho garanzie da spartire, né strade uguali per tutti da indicare. Ho solo la continua ricerca da consigliare.

Alla fine cosa importa come ti chiamano se, al di là di qualsiasi nome, ha finalmente capito chi sei?

Potete trovare gli altri articoli della rivista White moon qui:

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